“La vita è un anello tra l’arte e la politica” (Carl Andre)

Nella dialettica hegeliana la “negazione” corrisponde al momento dell’antitesi che non comporta l’annullamento della tesi ma costituisce lo sviluppo di questa ultima ed è la condizione del suo superamento nella sintesi, la quale è, a sua volta, la negazione della negazione. Rapportata al nostro specifico, negare la propria condizione o la condizione data non vuol dire uscire dalla specificità artistica, ma piuttosto procedere attraverso la negazione di convenzioni formatesi sulla stabilizzazione di negazioni precedenti (ogni avanguardia subisce un logorio che la trasforma in retroguarda o in sistema) alla evoluzione e alla trasformazione progressista (e quindi avanguardistica) della disciplina negativa. In attesa beninteso di una nuova negazione da opporre a quella che nel frattempo sarà divenuta modo consueto di fare e d’essere. Ma se è vero che la verità sta anche parzialmente nell’errore, sono allora da considerarsi degli errori tutte quelle che oggi vengono definite prefasi o fasi giovanili dei capisaldi della negazione? È forse possibile, per una corretta lettura dei corsi e dei ricorsi, la seguente equazione: la fase anteriore sta alla negazione come la stabilizzazione della negazione sta alla sintesi? Nel momento in cui si garantisce alle immagini una forza, si perfeziona la tecnica della loro riproduzione e della loro conservazione, si esaspera il bisogno collettivo dei loro consumo. Il gesto dell’avanguardia è quello di aggredire l’immagine e il suo dominio negandola, capovolgendone i termini, sconvolgendone i dati acquisiti sino a determinare un’ideologia della negazione atta a creare modelli di comportamento e d’uso opposti a quelli consuetudinali stabiliti dall’abitudine e dalle convenzioni. Si tratta spesso di distruggere una specificità per salvarla, di sottoporre le cose e l’ambiente, che si muovono attorno all’opera, a un trattamento (terapia di shock) per restituirgli la salute. E l’operazione prosegue anche se il paziente muore. Non possiamo però non renderci conto di una dicotomia esistente tra le operazioni artistiche legate a momenti di elaborazione, avanzamento e sperimentazione dei linguaggio e l’immagine che queste stesse operazioni proiettano all’esterno dei ristretto mondo degli addetti ai lavori. Non voglio qui parlare di funzione sociale, ma della proiezione esterna dell’immagine sociale che l’artista trasmette. In altre parole quando il tessuto sociale (compresi gli stessi operatori culturali impegnati in operazioni analoghe in settori paralleli) si trova di fronte al problema delle arti visive oppure è costretto a subire parametri di lettura esterni allo specifico (es. il pittore nel cinema viene sempre rappresentato con un cavalletto, uno studio disordinato, una barba e tutti i luoghi comuni che ne conseguono), si trova davanti a un’immagine d’uso che, non coincide quasi mai con quello che sono le reali situazioni o elaborazioni del momento. Questo se da una parte è imputabile a una mancanza di strategia del sistema distributivo, dall’altra riflette la totale delega di tale momento da parte dell’artista a quelle fasi sovrastrutturali della produzione culturale che, ben lontane da aver raggiunto momenti di efficacia almeno informativa (o delatoria), vivono la loro miseria appoggiandosi agli ultimi spiccioli di un sistema di scambio ormai agonizzante. Anche gli artisti che si definiscono marxisti utilizzano in gran parte gli stessi stilemi logori dell’ideologia borghese, gli stessi metodi, le stesse strategie. Per cui a determinare il successo, al di là del destinatario ideale a cui è indirizzato il messaggio e potenziale utente dei lavoro, è la stessa sovrastruttura sopracitata che in seguito attraverso i suoi “esperti” fornisce al grosso pubblico le indicazioni di chi deve scegliere e amare. Tutto l’entourage che si muove attorno al prodotto artistico (critici, galleristi, curatori di musei, intermediari ecc.) è estremamente ristretto, specializzato e dipendente. Vivendo fianco a fianco con queste espressioni della sovrastruttura, e avendoli come quasi unici interlocutori, l’artista è inevitabilmente influenzato dai loro umori, dalle loro analisi e dalle loro richieste e quindi in definitiva manipolato dalle strutture economiche e politiche in cui vive e che sono poi nel nostro caso quelle capitalistiche. In questi termini l’arte e il conseguente ruolo dell’artista si manifestano come una professione completamente priva di senso a tutti i livelli tranne che a quello carrieristico, che rimane il solo metro, nella logica del sistema dell’arte, per una misurazione dei valori nel settore. Credo che sia stimolante, oltre che estremamente interessante, affrontare il rapporto arte-politica-comunicazione attraverso il problema dell’organizzazione e dello sviluppo sociale e culturale di una comunità, lavorando per e accanto a persone per cui l’arte finora non ha mai significato nulla, per cui non costituisce un bene acquisibiie o da privatizzare ma semmai solo fruibile. Identificare e determinare una nuova utenza lavorando con essa in un contesto completamente diversificato dal contesto artistico. Questo non significa piegare le ginocchia e rinunciare al proprio ruolo, anzi vuol dire fargli acquistare un significato più preciso e più pregnante, vuol dire uscire dal proprio disperato isolamento verso una funzione sociale dell’arte e degli artisti. In ogni caso si tratta di superare il dilemma tra un’arte che tende a comunicare e una che tende a superare, attraverso sottili e sempre più raffinate strategie, i test di critici, galleristi o curatori per l’attrazione che esercita solo su alti specialisti. Si dà spesso per scontato (e i manipolatori dei mass-media ne hanno una notevole colpa) che il gusto del pubblico cosiddetto della strada, in altre parole quello non specializzato, sia prevalentemente attratto da tramonti dorati e fiori coloratissimi, e che manifesti un gusto da fotoromanzo. Questo porta molti operatori a disinteressarsi completamente dei problemi della comunicazione e della trasmissione del messaggio che non siano diretti o agli stessi artisti o agli addetti, una sorta di boomerang insomma. Ma a ben pensarci il salto dall’avanguardia alle masse può risultare più facile di quello dall’avanguardia all’alta borghesia capitalista. In effetti un’utenza disinteressata da problemi di privatizzazione è più portata a discutere e ad accettare o negare, un fenomeno artistico in termini molto più liberi di quanto non possa un’utenza portata a considerare l’oggetto artistico come bene da privatizzare, con caratteristiche di conservazione e di durata. Questo secondo tipo di utenza sottopone il prodotto a una serie di verifiche servendosi dei tradizionali e ormai collaudati momenti sovrastrutturali (il critico, il gallerista di fiducia, l'esperto) che ponendosi come intermediari tra lui e il prodotto gli impediscono una percezione sensoriale preconcetta alienandogli il piacere dei giudizio e della scelta. È indubbio che l’artista, coscientemente o non, sente i limiti dello status attuale, ma fa poco per uscirne; abituato a essere per lustri guidato, portato per mano (per essere poi abbandonato a se stesso quando non occorre più) è ora incapace di organizzarsi. Le strutture espositive private diventano sempre più esigenti e marciano verso una crisi di ruolo irreversibile, quelle pubbliche sono sempre più carenti e debitamente pilotate. Non esiste inoltre una effettiva volontà di aggregazione che potrebbe, sull’esempio degli Stati Uniti o del Canada (sia pure con l’aiuto dello stato assistenziale) risolvere, attraverso la creazione di spazi “diversi”, almeno il problema della tempestività dell’informazione del proprio lavoro. Risultano necessari, pur tra molte contraddizioni, nuovi modi di produrre e di comunicare, nasce l’esigenza di controllare la destinazione e la veicolazione dei proprio prodotto. L’artista si fa carico, spesso in prima persona, non solo del momento produttivo ma anche di quello distributivo, e se il secondo influenza il primo, il primo tiene conto della funzione di questo nuovo ruolo e delle diverse caratteristiche dei nuovi canali. Se nel mondo degli scambi e delle merci il prodotto A distribuito nel punto di vendita B o in quello C non cambia le sue peculiari caratteristiche (le qualità nutritive se si tratta di un prodotto alimentare) e al massimo può modificare di poche lire il prezzo di costo a seconda del prestigio e della collocazione dei punti di vendita, nell’arte visiva la distribuzione è una specie di doppia firma, un marchio che si aggiunge a quello dell’artista senza per questo aumentarne o diminuirne le qualità intrinseche dell'opera. Contrariamente a quello che succede nel resto delle merci, questo fiancheggiamento può portare a un aumento delle qualità sovrastrutturali (e quindi dei costo) spesso in misura di 3 o 4 volte il valore iniziale. Naturalmente è possibile anche l’operazione contraria, quella cioè del deprezzamento.  È naturale quindi che se invece di un punto di vendita (galleria d’arte) o di un punto promozionale in direzione dell’arricchimento sovrastrutturale (museo), l’artista si serve, ad esempio, della strada, il prodotto proposto avrà delle caratteristiche diverse da quello tradizionale. Non avendo bisogno di garantire una conservazione o una durevolezza nel tempo del prodotto, l’artista utilizza materiali poveri, deteriorabili, su cui la fenomenologia della strada lascerà le sue tracce sino a coprirli con altre comunicazioni e la cui durata avrà la vita breve della durata stessa della comunicazione. Sarà onesto osservare che il prodotto utilizzato spesso non coincide per nulla con quello che è poi la registrazione del lavoro e che debitamente manipolata viene offerta allo scambio e quindi monetizzata per garantire all’artista il finanziamento di nuove operazioni. Ma questa è una contraddizione per il momento inevitabile di cui parleremo più avanti. Prende così consistenza un fenomeno che non è populista, come si potrebbe facilmente obiettare, ma che determina una presa di coscienza e un rapporto attivo con i nuovi media e i canali da cui l’artista visivo per anni si è autoescluso. Diventa inevitabile a questo punto tentare di mettere insieme il rapporto “arte-vita” contrapposto a quello “arte-fantasmi della vita”, soprattutto sulla spinta di un nuovo fenomeno legato al mondo studentesco e giovanile: la creatività di massa. Questa ha di fatto esautorato le arti e gli artisti, intesi nel senso più stretto, da quella funzione di provocazione che per anni hanno avuto, a partire da Dada e Wharol. L’innesto del fattore politico esautora spesso l’arte come produzione d’immagini a favore della parola come materiale sociale. Lo slogan, il testo, acquistano una funzione nuova e differenziata che si contrappongono alla staticità banalizzata della pubblicità. La direzione cambia e cambiano pure gli obiettivi, da provocazione l’arte si sposta nel settore della comunicazione raccordata con il sociale. Insinua dubbi sullo sclerotizzato ruolo dell’arte e dell'artista per come sono abitudinariamente intesi. Più che tendere alla produzione di immagini ne discute la loro efficacia, la loro funzione, in altri termini teorizza una prassi nuova attraverso l’utilizzo della dialettica, del materialismo storico-dialettico, tentando di superare gli schemi della rappresentazione visiva, rovesciando il significato di immagini usuali o mettendo in evidenza l’uso repressivo del linguaggio inteso come strumento di diffusione del consenso. Lo stesso mezzo postale viene identificato come un potenziale canale di comunicazione, un canale a basso costo da tempo presente nel settore. Le operazioni vengono riscattate a livello di vere e proprie analisi del mezzo, che, perdendo la caratteristica dell’oggettivazione, vive solo in funzione dei contenuti e delle informazioni che comunica. Si determina così un filo diretto tra produttore e utenza che saltando le barriere delle infra e sovrastrutture stabilisce un rapporto nuovo tra mittente e ricevente, sino a determinare un continuo fenomeno di scambio dei ruoli. Tutto questo ci porta a riflettere sull’emarginazione come scelta militante all’interno del settore. Emarginazione da canali troppo angusti, esigenti e intasati che richiedono un prezzo umano (nel senso del decoro) troppo alto e che condannano inevitabilmente all’isolamento o nel migliore dei casi a un temporaneo successo di sovrastruttura, assolutamente inadeguato alle aspirazioni di una comunicazione più vasta e articolata che tenda a toccare nella sua interezza il tessuto sociale. L’artista (nei suoi esempi migliori) è stato ed è tuttora una punta di diamante nel settore dell’elaborazione delle idee, delle tecniche, dei modelli, continuamente saccheggiati da strutture parallele che posseggono un più vasto apparato distributivo. Ed è anche per questo che bisogna stabilire un rapporto possibile tra l’ambito intellettuale e quello sociale basato sul ribaltamento dell’attuale rapporto, rapporto nuovo che richiede appunto modelli diversi che contrastino la sottile opera di distruzione della consapevolezza del giudizio che passa attraverso i canali della comunicazione. L’operatore visivo correggendo il tiro, uscendo all’aria aperta può determinare momenti nuovi, spiazzamenti del contesto iconografico urbano. A patto però che riesca a trasformarsi da intellettuale introverso e aristocratico e con un lessico privato, in tecnico della comunicazione. Un tecnico nuovo che tenda a decodificare le strutture che regolano il sistema dell’arte, a smascherare i pilastri (mass-media) su cui si poggia l’ideologia borghese e che sono prevalentemente legati al potere economico, che li utilizza oltre che per i propri interessi immediati, soprattutto in funzione di affermare e diffondere la propria ideologia. Ma il pericolo più grave è che per questi artisti che scelgono di lavorare all’esterno del mondo artistico, negando quindi un loro ruolo legato agli schemi prefissati e alle convenzioni, il referente sia ancora il mondo artistico e non una nuova utenza.

Fernando de Filippi

Intervento pubblicato nel numero 4-5 di “Tra” (marzo-maggio 1978)


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